Cronaca di una finale che fa sognare

Come nel 2006. Sono mesi che pensando a Berlino ci gira in testa questa frase. Il luogo, la cornice, la gente, i colori, i numeri di maglia, i gol che si vanno a incastrare come tasselli di un meraviglioso mosaico azzurro. La nazionale di calcio è un fenomeno che unisce tutti, mette da parte le antipatie e campanili, ci regala emozioni che salvano con nome i ricordi e questi poi non se ne vanno più, pure se provassi a formattare la memoria.
Oggi un gruppo di ragazzi con la maglia azzurra che nel 2006 erano soltanto bambini tenuti per mano nei caroselli delle notti mondiali, ha fatto collezione di coincidenze e messo in parallelo mille storie, fino a incorniciare di gioia Berlino.
L’avventura comincia ad Hannover lunedì 12 giugno, esattamente come nel 2006. Ci tocca la Germania in semifinale e la superiamo col batticuore, come nel 2006. La finale con Porto Rico è un’altra sfida infinita e manco i supplementari bastano a deciderla. Allora ce la giochiamo ai rigori, come nel 2006.
Riavvolgiamo il nastro al calcio d’inizio di questa partita decisiva, col gol lampo di Paolo Vacca. La sua sgroppata sulla fascia destra e una staffilata che s’infila vicino al primo palo. Viene da pensare che oggi sarà una passeggiata. Invece i portoricani sono tosti, ci hanno già beffato nel divisioning. La loro isola verde è fatta di montagne e cascate che sanno dominare. Li conosciamo: sono fisici. Ci complicano la vita con la loro intensità, con il loro modo asfissiante di difendere a uomo, con una lunga serie di palle tese buttate in mezzo da calcio d’angolo. Su una di queste conclusioni ci scappa una svirgolata e il più classico degli autogol. Uno a uno. Reagiamo, ma non è facile trovare un varco là davanti. La loro area diventa fitta come le loro foreste tropicali. C’è un po’ di sfortuna, un po’ di tensione, nelle gambe accusiamo gli sforzi di ieri. Da bordo campo una voce urla che “se puede, se puede”. C’è un rimpallo che premia l’attacco caraibico, Miranda si ritrova a tu per tu con Giovanni. Subiamo il due a uno. Stiamo sotto, come nel 2006. Ma anche nell’errore, tra gli azzurri vince la spinta a far bene, la fiducia di tutti, tecnici e compagni di squadra, la voglia di difendere quel sogno che è anche un giuramento e ci porta fuori dal buio della paura di non farcela.
Si va al riposo sotto di un gol, come con la Germania, ma siamo consapevoli che tutto è ancora possibile. La ripresa si apre con le solite rotazioni che mandano in campo tutti, tranne Marco, con la sua caviglia malandata. Il nostro numero due ha già stretto i denti oltre i limiti della sopportazione, nelle prime quattro partite, ma continua a dare il suo contributo prezioso, con consigli e incitamenti. È l’anima del gruppo. Ognuno fa la sua parte. Il nostro gioco abbraccia il rettangolo con le geometrie del calcio a 5. Le azioni si sviluppano prima in orizzontale, poi in verticale, aspettando l’imbucata giusta. Riccardo e Fabio le provano tutte con generosità, Antonello costringe Cardona a un mezzo miracolo, Alex, Daniele, Paolo e Alessandro tengono alta la squadra e fanno gli straordinari anche in fase di ripiegamento. La rete del Porto RIco, però, pare stregata. In contropiede rischiamo qualcosa, ma Giovanni si supera e i suoi balzi caricano gli azzurri. A metà tempo ecco Leonardo che ci riporta a galla con una bella giocata dentro l’area e un tocco che anticipa il riflesso del portiere. Due pari. La partita è bellissima, a tratti spigolosa, perché tutti danno il massimo e quando i minuti regolamentari si esauriscono nel suono della sirena, ne iniziano altri 10. I supplementari. Noi continuiamo a spingere, ma la difesa avversaria chiude ogni varco e punge con le ripartenze. A pochissimo dalla fine, un altro salvataggio incredibile di Cardona ci nega il gol vittoria con una smanacciata.
Quando finiscono i supplementari loro esultano, noi no. E questo significa qualcosa. Ecco i calci di rigore. Porto Rico ne ha già battuti una sfilza in semifinale, superando a oltranza per 10-9 Gibilterra.
Ma i rigori non sono una lotteria. Devi saperli tirare. O parare.
Chi è acciaccato, con molta maturità, fa un passo in dietro, chi se la sente ne vorrebbe tirare due.
Apre il sinistro preciso di Antonello, gol di Porto Rico, con un brivido va a segno anche Riccardo che piega le mani al portiere. È il momento del nostro Giovanni, che apre il compasso e respinge di piede. Alessandro va a segno, Leonardo non sbaglia. Porto Rico pareggia sempre, ma poi sui piedi di Alex Cristian Capponi c’è il match point.
Ecco, andiamocelo a rivedere, il suo rigore. Come quello di Fabio Grosso che tifava per noi dall’Italia e con le sue parole ci ha dato la carica. La palla che s’insacca nell’angolo alto. Cinque rigori segnati su cinque, come nel 2006. Siamo campioni del mondo e stiamo imparando a conoscere una felicità che diventerà nostra coinquilina. Per sempre. A volte si vestirà da malinconia. A volte ci verrà a trovare nei sogni. Perché siamo Atleti che hanno avuto un’opportunità e hanno cercato di dare il massimo per trasformarla in crescita, grazie a chi ci ha guidato in questo viaggio fantastico, dentro e fuori dal campo. Stanotte dormiamo con questa bella medaglia d’oro al collo. Ha una forma strana, un cerchio imperfetto, come imperfetta è la vita. Ed è proprio questo che la fa bellissima. Come noi, con tutte le nostre meravigliose differenze. Siamo un gruppo di amici che tra tanti anni continuerà a esserlo. Ci verrà ancora da ridere quando qualcuno dirà: “Ti ricordi quella volta a Berlino? È andata proprio come nel 2006”

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